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11/4/21 - II Domenica di Pasqua, anno B


Anche noi, come le donne del Vangelo, spalanchiamo gli occhi della fede "al levar del sole", dopo tanto buio, sul Signore Risorto. È il tempo della Pasqua e la liturgia non potrebbe aiutarci meglio invitandoci ad entrare in un tempo dalla scansione nuova che prelude alla nostra vita di risorti con Cristo, al di là del tempo e dello spazio, nella dimensione stessa dell'eternità di Dio.
Una settimana, la scansione della Genesi, di sette settimane fino all'estuario nell'ottavo giorno, Pentecoste, quando l'infinito, il fuoco della Pentecoste annuncia lo Spirito di Dio comunicato a tutti i popoli. È finito il tempo di Babele; il linguaggio dell'amore pone in comunicazione tra loro tutte le lingue. Di domenica in domenica siamo condotti al centro infuocato del credere inteso come esperienza comunitaria e personale del Risorto. Siamo qualificati come uomini dell'Ascolto perché è dalla narrazione dell'evento che nasce la testimonianza e la trasmissione fino a noi della fede. E, siamo di volta in volta invitati a rifletterci, specchiarci nella prima esperienza di Chiesa del Risorto perché quel momento diventa paradigmatico fino al ritorno del Signore.
Così oggi. Siamo fatti entrare nel succedersi di otto giorni in otto giorni della esperienza di Gesù Risorto: "La sera di quello stesso giorno… otto giorni dopo". Entriamo, vedendoci subito in Tommaso, che dapprima non era presente, discontinuo come noi... E poi, dubita. Come assomiglia la sua alla posizione del nostro modo di conoscere con in mano il metro e all'occhio il microscopio, pensando di ridurre al toccare, al vedere la realtà. In verità il conoscere dell'uomo è più ampio, più profondo, più coinvolgente. Visto il "virus" che la scienza riconosce, bisogna risalire alle altre scienze che viziate dall'egoismo, dall'interesse, dal profitto spingono in percorsi senza uscita. Gesù non teme il nostro bisogno di misurare: metti la tua mano! Guarda, constata con tutto il tuo essere e non essere incredulo ma credente! La fede non umilia la ragione, solo le impone coerenza e attenzione verso l'uomo nella sua interezza. C'è nella esperienza degli Undici un particolare che ci riguarda e che ci collega con il momento sorgivo del credere: "Beati quelli – noi! – che non hanno visto e hanno creduto".
Siamo così riportati all'ascolto che apre alla fede. "La moltitudine di coloro che erano diventati credenti" lo erano perché attenti alla testimonianza degli Apostoli sulla Risurrezione del Signore e, dall'annuncio accolto, sgorgava il sentirsi tutt'uno per quella medesima fede e la stessa fede, essendo esperienza dell'Amore di Dio, diventava carità: "Nessuno infatti tra loro era bisognoso". La legge di quel primo nucleo, moltitudine dice il testo, era far circolare, dividere, moltiplicare i beni e non trattenerli.
L'apostolo Giovanni, narrando la dinamica della prima Chiesa, pone in rilievo una verità che dimenticata apre la via al pallido credere odierno. L'essere cristiano, prima di essere decisione libera e responsabile di fronte a Cristo che è il contenuto della fede, è coscienza di essere generato, salvato, risuscitato da Dio. Senza questa consapevolezza di Dio, il nostro "io" è insufficiente quando è l'ora della fedeltà, del trasmettere, del risorgere.

11/4/21

Letture: At 4,32-35; Sal.117; 1 Gv 5,1-6; Gv 20,19-31


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don Ezio Stermieri
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