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La Pasqua di Gesù, la sua risurrezione sia nel senso che risorse, come Dio non può morire, sia che fu da Dio risuscitato nella sua carne di uomo come noi, segna un intervento decisivo dell'Eterno nel tempo, nella vicenda umana. È come se il tempo subisse una dilatazione in attesa del compimento finale: la risurrezione del nostro essere di carne, la vita eterna, espressa dalla liturgia in sette settimane di Pasqua che confluiscono nell'ottavo giorno, la Pentecoste: la salvezza che raggiunge l'umanità fino ai suoi confini.
Ed ogni domenica, da angolazioni che si incrociano, presenta il risultato storico della Pasqua, noi, la Chiesa. Così oggi! Ecco anche noi davanti al Cristo dell'Apocalisse. Anche noi come Giovanni in esilio, in una Patmos che ci incatena alle vicende umane, spesso tragiche. Ed ecco la sua voce. Noi che dirigiamo lo sguardo verso Lui, ancora simile a noi ma avvolto nell'abito della divinità, con la cintura del servizio, la Croce, ora d'oro. È il Kyrios, il Signore vincitore. Ecco ancora la sua parola: "Non temere! Io sono (non altro, o altri!) il Primo e l'Ultimo e il Vivente" che dà vita. E la Chiesa solo davanti a Cristo può avere la coscienza autentica della sua identità.
Questa Chiesa, continuazione del suo Vangelo della Carità, si incammina nella storia, arriva fino a noi e misura se siamo ancora autentici.
"Portavano – dice Atti – gli ammalati persino nelle piazze", "persone tormentate da spiriti impuri…". E basta l'ombra di chi è stato con Gesù, gli apostoli allora, noi oggi, perché "tutti vengano guariti". È il nostro compito, la nostra missione guarire dalla malattia della prepotenza che degenera in guerra, odio, armi, vendette… E senza l'essere stati e rimanere con Lui ci rimarrebbe solo di decidere da che parte stare nella lotta per la roba. Con Lui la Chiesa diventa ospedale da campo che guarisce dalla paura, dalla solitudine, dai fallimenti perché depositaria dello spirito per risorgere.
Noi? Ma se noi stessi ammalati dalla febbre del tempo che viviamo siamo tanti "Tommaso" che se non vede non crede, se non tocca con mano dubita. Noi come Tommaso così intermittenti, a bassa energia che crediamo ancora solo perché andiamo e veniamo?
Egli, il Risorto, di otto giorni in otto giorni, il Vivente, il Presente ci convoca: "Metti qui il tuo dito": metti le tue mani a servizio non solo di te ma per fare del bene. "Metti la tua mano nel costato dal quale sei nato nell'acqua e nel sangue che è vita nuova". E non può che essere nostra la sua professione di fede: "Mio Signore, mio Dio". Di questo abbiamo bisogno ed urgenza non solo per noi ma per la "piazza" dell'umanità in cui siamo posti. Non gelosi della fede, che non è nostra ma per tutti, ma guaritori di una umanità che non si rassegna delle sue disgrazie.
24/4/22
Letture: At 5,12-16; Sal 117; Ap 1,9-11.12-13.17.19; Gv 20,19-31