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1/5/22 - III Domenica di Pasqua, anno C


Un grande teologo del Novecento ha affermato che il tempo che stiamo vivendo dalla Risurrezione di Gesù e il suo ritorno è tra il già e il non ancora. Un tempo di gravidanza. Un tempo dove il principio di risurrezione è già nella nostra vita, la morte è già sconfitta, l'aldiqua e l'aldilà sono già strettamente uniti. Il tempo pasquale con la sua liturgia ce ne fa fare esperienza.
Il testo dell'Apocalisse che abbiamo udito rende testimonianza: "Io Giovanni vidi e udii" e subito il resoconto: "Voci di molti angeli attorno al trono e agli esseri viventi e agli anziani". Riporta poi il canto della liturgia del Cielo: "L'agnello che è stato immolato è degno di ricevere onore, gloria, benedizione". La nostra liturgia dunque è comunione mentre ancora siamo in cammino, il nostro Amen è preludio e legame con quanti ci hanno preceduto. Il velo del tempio che si è squarciato alla morte di Gesù apre l'orizzonte di una eternità sperata anche se ancora messa alla prova. Di qui parte il nostro essere credenti, il nostro essere Chiesa e senza il far nostro questa visione quanto noi siamo, la nostra identità e coscienza si sfarinerebbe in una lobby autoreferenziale che deputa qualcuno ad opere umanitarie con criteri soggettivi alternati alla mentalità comune del dio denaro. Non sarebbe forte di fronte agli avversari per resistere come avveniva nella prima comunità cristiana. L'abbiamo sentito (Atti, 5): "Gli avevamo espressamente proibito di insegnare nel nome di Gesù e voi avete riempito la Città della sua memoria". La risposta è sicura: "Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini". Di questo Pietro e gli Apostoli si dicono testimoni. Fatti flagellare, ripetuto il divieto essi "andarono via lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù". Dove trovarono tale forza se non nello sguardo sul Risorto Gesù che Dio ha innalzato alla sua destra come capo e Salvatore. Nella certezza dunque che altri "capi", altri che si presentano come salvezza, lo fanno in nome di un potere capace di schiacciare l'uomo, la sua dignità, il suo destino: essere associato, risorto, alla Comunione dei Santi. Senza il "non ancora" anche il "già", il presente riduce l'uomo a numero, a massa, a forza lavoro subalterno all'interesse di mercato.
Nella pagina del Vangelo possiamo certo ritrovarci nelle parole di Pietro, deluso per la tragica fine del Maestro e anche noi come lui che afferma: "Io vado a pescare" abbiamo la tentazione dell'abbandono. Siamo minoranza, le leggi che determinano il concreto vivere seguono altri criteri, è diventato difficile perfino riconoscerci nella stessa fede, speranza, carità. Ma al nostro fallire perché smarrito il Cristo, il Vangelo, magari l'educazione ricevuta, al nostro "no" perché non sappiamo neanche più pescare, ossia lavorare, amare, occuparci della vita tante sono le delusioni… Cristo ci raggiunge anche oggi: "Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete".
Alla "destra" siede Lui, il Signore, la ragione, il perché, il senso della vita che include la stessa morte e le tante mortificazioni della vita. Si tratta di far risalire, mostrare il Vangelo sommerso dalle tante preoccupazioni della vita. Si tratta di mettere Lui, eucaristia, al centro dello scorrere delle settimane.
Giovanni attesta che appena riconobbero che era Gesù alla riva del lago trassero a terra la rete piena di centocinquatre grossi pesci. E quel numero dice una totalità, parla di una intera umanità alla quale solo noi possiamo attestare quanto Terra e Cielo, l'adesso e l'oltre siano strettamente congiunti e lo slancio verso il non ancora per noi sia la fecondità, la realizzazione del nostro vivere nel tempo.

1/5/22

Letture: At 5,27-32.40-41; Sal 29; Ap 5,11-14; Gv 21,1-19


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don Ezio Stermieri
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