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25/9/16 - XXVI Domenica t.o. anno C


L'insegnamento di Gesù sulla strada che lo conduce a Gerusalemme ha, come ci siamo accorti, una pluralità di interlocutori: le folle, i discepoli, le varie componenti del popolo ebraico. Oggi i farisei. Essi credono che la legge sia il compimento messianico, ma una legge ricondotta alla loro mentalità fatta dalla sicurezza di essere, a prescindere, nel giusto. Per Gesù, con la parabola ascoltata, hanno smarrito il cuore della legge: Mosè, i profeti che ponevano nell'alleanza la giustizia, la misericordia, la pietà solidale. Così un ricco di cui non è riportato il nome perché si identifica in quel che mangia e nei suoi vestiti e un povero che sta alla sua porta, guardato più dagli animali, più umani dell'uomo, diventano il dramma raccontato da Gesù per dire da che parte sta veramente Dio. Come credono i farisei esiste un aldilà, una risurrezione: il povero muore e si trova accanto ad Abramo, il padre dell'alleanza; il ricco, dice, sarà sepolto. Inutile in quell'aldilà recuperare il tempo perduto per se stessi, vano chiedere segni per chi rimane. Hanno Mosé che in nome di Dio ha tracciato la strada di un popolo di uguali e dove il povero ha un posto di privilegio nel cuore di Dio che ha riguardato e si è chinato sulla povertà e schiavitù di tutti. Hanno i profeti che hanno denunciato la tentazione del farsi largo a spese del misero.
Abbiamo ascoltato Amos (prima lettura) e non potrebbe essere più potente il suo: guai! Guai agli spensierati che non si fanno carico: mangiano, canterellano, bevono, usurpano, non si preoccupano di costruire il futuro, affogano nel presente: andranno in esilio, una società che diventa schiava di se stessa, esiliata nella sua stessa patria.
Non c'è bisogno di segni eclatanti, morti che risorgono, qualcuno che venga a raccontare che la morte non è la fine di tutto ma è il "fine" della vita e l'aldilà non sarà che l'eternità di quanto si sarà amato nell'"aldiqua", perché Dio è Amore. Il Vangelo non dice della reazione di quei farisei e di quanti oggi dichiarano giusto il loro comportamento con troppa facilità dimenticando che certe paure sono il frutto di egoismi famelici del comune passato.
San Paolo (seconda lettura) pone il rimedio possibile, perché l'uomo non è solo capace di definirsi per ciò che mangia, veste o possiede: "Tu, uomo di Dio – l'uomo è anche somigliante a Dio, capace di amore, di solidarietà, di giustizia, di umanità – tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Combatti la buona battaglia della fede – perché i valori non si trasmettono con il DNA, vanno conquistati da ogni generazione – cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato". Certo, questa vita terrena non è un diritto, è un dono perché è Dio stesso ma ha una percentuale che è nostra, conquistata giorno per giorno nella quotidianità della famiglia, della professione, in quella comunità che ci chiede quella "gratuità" per la quale Dio ci riconoscerà somiglianti a Lui, degni di Lui per sempre.

25/9/16

Letture: Am 6,1.4-7; Sal 145; 1 Tm 6,11-16; Lc 16,19-31


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don Ezio Stermieri
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