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5/5/19 - III Domenica di Pasqua anno C


La liturgia di questa terza Domenica di Pasqua ci introduce in un'altra liturgia della Parola, che prima di essere udita è guardata, quella presentata dall'Apocalisse, regola di ogni liturgia cristiana: “Io, Giovanni, vidi e udii”. E subito il presente della Chiesa, combattuta dall'esterno e tentata dall'interno, è proiettata nel futuro, nell'epilogo della storia quando tutto il creato del Cielo e della Terra eleverà l'inno di gloria: “L'agnello che è stato immolato è degno di ricevere lode, gloria e potenza, nei secoli dei secoli”. Ogni momento della storia del credere, dalla prima comunità fino a noi, se non crede che l'Agnello, il Cristo, che ha dato la vita, è vittorioso sulle tante negatività, contraddizioni, fallimenti, persecuzioni che si allineano nella storia, perde, tradisce la sua stessa ragion d'essere, il suo essere nel mondo, l'“Amen” che deve risuonare più forte di ogni tentativo di far tacere il Vangelo. È stato così fin dall'inizio: “Dobbiamo obbedire a Dio invece che agli uomini” è la risposta di Pietro a nome di tutta la Chiesa a quanti presumono di poter imbavagliare la Parola: “Vi avevamo espressamente proibito di insegnare in questo nome!”. Non può essere taciuta la ragione per cui i cristiani non si allineano a ridurre l'uomo numero, consumo, mercato, oggetto di scambio, corrompendone l'intelligenza, la mente, il cuore, la volontà. Di fronte al fatto che Dio in Cristo abbia preso su di sé i tanti fallimenti perché l'uomo fosse libero, potesse risorgere, camminasse verso la pienezza della vita è verità più grande di ogni perfidia, prepotenza, inimicizia umana. E da quel momento i credenti sono coloro che sono “lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù”.
La pagina del Vangelo di Giovanni diventa, a sua volta, speculare e ogni momento della storia del credere può rivedere se stesso. Non ci saremmo, o saremmo un falso storico, se Gesù non si manifestasse. E lo fa proprio al di dentro della constatazione del fallimento della nostra stessa sequela, identità, missione se Egli non fosse l'attesa salvezza, redenzione, riscatto, liberazione dell'umanità. Ecco sulla riva dei nostri fallimenti, delle problematiche irrisolte. “Gettate la rete dalla parte destra e troverete”. Si tratta di gettare in Lui, che siede alla destra del Padre, la nostra pastorale, il nostro evangelizzare, il nostro domandare profondo sul senso della nostra esistenza. Egli si fa nutrimento per la nostra fame e sete di Dio. Apre con noi un dialogo serrato: “Mi ami?”. Cioè, sei disposto a condividere il “come” io ho interpretato il vivere, il morire e il rimaner vivo per il susseguirsi delle generazioni? Non basta il voler bene, la stima, l'apprezzamento per la dottrina, la morale, l'esemplarità... Si tratta di condividere. La fede è una “consegna” senza la quale si gioca a fare i salvatori ma senza Cristo non c'è salvezza. Un cristianesimo su misura della soggettività secondo le leggi del mercato dove l'acquisto è su misura di chi compra e tutto può essere gettato perde il suo senso, quello dato da Cristo perché l'uomo abbia salva la vita. Una cristianità che non parta e riparta dalla celebrazione del Mistero dove Dio si comunica si riduce ad un discutibile dato sociologico. Cristiani che non trasmettono più se stessi nei contenuti della fede producono piccoli cristiani che non vanno oltre il primo decennio. Siamo ancora una volta al bivio: obbedire a Dio o servire l'“io”?

5/5/19

Letture: At 5,27-32.40-41; Sal 29; Ap 5,11-14; Gv 21,1-19


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don Ezio Stermieri
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